La separazione personale dei coniugi
La separazione legale comporta l’interruzione di alcuni effetti propri del matrimonio -si scioglie la comunione legale dei beni, cessano gli obblighi di fedeltà e di coabitazione-, non ponendo però fine al matrimonio, né fa venir meno lo status giuridico di coniuge. Altri effetti, invece, residuano, ma sono limitati o disciplinati in modo specifico (dovere di contribuire nell’interesse della famiglia, dovere di mantenere il coniuge più debole e dovere di mantenere, educare ed istruire la prole). La separazione, a differenza del divorzio, ha inoltre carattere transitorio, tanto che è possibile riconciliarsi, senza alcuna formalità, facendo cessare gli effetti prodotti dalla stessa ex art. 154 c.c. Per rendere formale la riconciliazione, oltre all’accertamento giudiziario, è possibile per i coniugi recarsi al Comune di appartenenza per rilasciare un’apposita dichiarazione. Può accadere che i coniugi decidano di interrompere la convivenza senza formalità (senza quindi fare ricorso ad un giudice), ponendo in essere la c.d. separazione di fatto. La separazione di fatto non produce alcun effetto sul piano giuridico, né è sufficiente a far decorrere il termine di tre anni per addivenire al divorzio. Inoltre, sebbene la separazione di fatto non sia sanzionata da alcun provvedimento dell’autorità giudiziaria, l’allontanamento di uno dei due coniugi dall’abitazione familiare o l’instaurazione di relazioni extra-coniugali potrebbero essere motivo di addebito della separazione nel caso di separazione giudiziale. A differenza dalla separazione di fatto, la separazione legale produce effetti che incidono sui rapporti personali e patrimoniali tra marito e moglie, e tra genitori e figli. Tra i principali ambiti nei quali si manifestano mutamenti della situazione giuridica si segnalano:1) l’affidamento dei figli ed il loro mantenimento; 2) l’assegnazione della casa familiare; 3) il diritto agli alimenti per l’ex coniugi; 4) il diritto al mantenimento per l’ex coniuge; 5) le questioni patrimoniali relative alla comunione e ai beni acquistati in comune, e i diritti successori;
– Separazione consensuale La separazione consensuale è l’istituto giuridico attraverso il quale marito e moglie, di comune accordo tra loro, decidono di separarsi. La separazione consensuale non è quindi possibile in mancanza di un accordo tra i coniugi che investa ciascuna questione: diritti patrimoniali, mantenimento del coniuge debole, diritti di visita e mantenimento della prole, assegnazione della casa coniugale. I coniugi devono comparire personalmente dinanzi al Presidente del Tribunale per il tentativo obbligatorio di conciliazione. Il Presidente del Tribunale può adottare gli eventuali provvedimenti che riterrà necessari ed urgenti. È da questa data che decorre il termine di tre anni per poter richiedere il divorzio. Successivamente, se gli accordi sono ritenuti equi e non pregiudizievoli per i coniugi e soprattutto per la prole, il tribunale dispone con decreto l’omologazione delle condizioni, così determinando di diritto la separazione. Le condizioni stabilite in sede di separazione consensuale potranno comunque essere modificate o revocate qualora intervengano fatti nuovi che mutano la situazione di uno dei coniugi o il rapporto con i figli.
– Separazione giudiziale La separazione giudiziale si fa ricorso nel caso in cui non vi sia accordo tra i coniugi e non può pertanto addivenirsi ad una separazione consensuale. La separazione giudiziale può essere quindi richiesta anche da uno solo dei due coniugi. Diversamente dalla separazione consensuale, quella giudiziale presuppone lo svolgimento di un processo vero e proprio, con il conseguente obbligo di incaricare un difensore diverso per ogni coniuge. I presupposti della pronuncia di separazione giudiziale sono previsti dall’art. 151 c.c. e si traducono nel verificarsi di fatti che, anche indipendentemente dalla volontà di uno o entrambi i coniugi, sono tali da “rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza” o da “recare grave pregiudizio all’educazione della prole”. Il codice civile non specifica né elenca la natura e le caratteristiche dei fatti , lasciando così intendere che qualsiasi circostanza che sia incompatibile con il protrarsi della convivenza e dell’unità famigliare conferisce il diritto a domandare la separazione. Si dovrà comunque trattare di atti connessi alla violazione degli obblighi nascenti dal matrimonio e sanciti nell’art. 143 c.c.: obbligo reciproco alla fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione nell’interesse della famiglia e coabitazione. Una importante novità legislativa introdotta dal D.L. 14.03.2005 n. 35 convertito nella Legge 14.05.2005 n. 80, è quella dell’obbligo di allegare le ultime dichiarazioni dei redditi presentate da entrambi. Inoltre, con riguardo ai provvedimenti da assumere in favore dei figli, il riformato art. 155 codice civile ha previsto la facoltà per il giudice di disporre un accertamento avvalendosi della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi, ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate. In caso di separazione giudiziale è possibile richiedere l’addebito della separazione, cioè l’accertamento che vi sia stata la violazione degli obblighi che discendono dal matrimonio da parte di uno dei coniugi e che questa violazione abbia determinato la cessazione del rapporto. Nel caso in cui l’addebito sia riconosciuto dal giudice a carico di uno dei coniugi, questi non ha diritto ad ottenere l’assegno di mantenimento e perde la maggior parte dei diritti successori.
– Divorzio Il divorzio è l’istituto giuridico che permette lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio quando tra i coniugi è venuta meno la comunione spirituale e materiale di vita ed essa non può essere in nessun caso ricostituita. Si parla di scioglimento qualora sia stato contratto matrimonio con rito civile, di cessazione degli effetti civili qualora sia stato celebrato matrimonio concordatario. Anche il procedimento di divorzio può seguire due percorsi alternativi, a secondo che vi sia o meno consenso tra i coniugi: 1) divorzio congiunto, quando c’è accordo dei coniugi su tutte le condizioni, in questo caso il ricorso è presentato congiuntamente da entrambi i coniugi; 2) divorzio giudiziale, quando non c’è accordo sulle condizioni, in questo caso il ricorso può essere presentato anche da un solo coniuge. Il divorzio si differenzia dalla separazione legale in quanto con quest’ultima i coniugi non pongono fine definitivamente al rapporto matrimoniale, ma ne sospendono gli effetti nell’attesa di una riconciliazione o di un provvedimento di divorzio. Presupposti necessari per richiedere il divorzio sono dunque: 1) il venir meno dell’affectio coniugalis, cioè della comunione morale e spirituale; 2) la mancanza di coabitazione tra marito e moglie. Le cause che permettono ai coniugi di divorziare sono tassativamente elencate nell’art. 3 della legge 1970/898 e sono: 1) quando, dopo la celebrazione del matrimonio, l’altro coniuge è stato condannato, con sentenza passata in giudicato, anche per fatti commessi in precedenza: all’ergastolo ovvero ad una pena superiore ad anni quindici, anche con più sentenze, per uno o più delitti non colposi, esclusi i reati politici e quelli commessi per motivi di particolare valore morale e sociale; a qualsiasi pena detentiva per il delitto di cui o ad una pena detentiva superiore ai quindici anni per uno o più delitti non colposi o a qualsiasi pena detentiva per incesto, violenza carnale, ovvero per induzione, costrizione, sfruttamento o favoreggiamento della prostituzione; 2) l’altro coniuge è stato assolto per vizio totale di mente da uno dei delitti previsti nel punto 1 o quando il giudice competente a pronunciare lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio accerta l’inidoneità del convenuto a mantenere o ricostituire la convivenza familiare; 3) è stata pronunciata con sentenza passata in giudicato la separazione giudiziale fra i coniugi, ovvero è stata omologata la separazione consensuale ovvero è intervenuta separazione di fatto quando la separazione di fatto stessa è iniziata almeno due anni prima del 18 dicembre 1970. In tutti i predetti casi, per la proposizione della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, le separazioni devono essersi protratte ininterrottamente da almeno tre anni a far tempo dalla avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale. L’eventuale interruzione della separazione deve essere eccepita dalla parte convenuta; 4) il procedimento penale promosso per i delitti previsti dalle lettere b) e c) del n. 1) del presente articolo si è concluso con sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato, quando il giudice competente a pronunciare lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio ritiene che nei fatti commessi sussistano gli elementi costitutivi e le condizioni di punibilità dei delitti stessi; 5) il procedimento penale per incesto si è concluso con sentenza di proscioglimento o di assoluzione che dichiari non punibile il fatto per mancanza di pubblico scandalo; 6) l’altro coniuge, cittadino straniero, ha ottenuto all’estero l’annullamento o lo scioglimento del matrimonio o ha contratto all’estero nuovo matrimonio; 7) il matrimonio non è stato consumato; 8) è passata in giudicato sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso a norma della legge 14 aprile 1982, n. 164. Con il divorzio, marito e moglie mutano il loro precedente status di coniuge e possono contrarre nuove nozze. La donna perde il cognome del marito. A seguito di divorzio, vengono meno i suddetti diritti e gli obblighi discendenti dal matrimonio (artt. 51, 143, 149 c.c.), viene meno la comunione legale dei beni ai sensi dell’art. 191 c.c. (se già non è accaduto in sede di separazione), cessa la destinazione del fondo patrimoniale (art. 171 c.c.) e viene meno la partecipazione dell’ex coniuge all’impresa familiare (art. 230 bis c.c.). La sentenza di divorzio potrà anche stabilire provvedimenti su: 1) questioni patrimoniali e assegnazione dell’abitazione familiare 2) versamento assegno divorzile 3) affidamento della prole
– Affidamento e mantenimento dei figli Il codice civile sancisce il principio della bigenitorialità, al quale i giudici che pronunciano la separazione ed il divorzio devono attenersi: anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale. Nell’adottare i provvedimenti relativi alla prole, inoltre, il giudice deve tenere presente il principio del preminente interesse morale e materiale dei figli. Il giudice che pronuncia la separazione personale deve valutare prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori: si tratta dell’affidamento condiviso. In questo caso la potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione e alla salute sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente. Il giudice – solo dopo aver escluso la possibilità di un affidamento condiviso – può stabilire a quale dei genitori i figli sono affidati: può cioè prevedere un regime di affidamento esclusivo ad uno solo dei genitori. L’art. 155-bis del codice civile prevede che il giudice può disporre l’affidamento dei figli ad uno solo dei genitori qualora ritenga con provvedimento motivato che l’affidamento all’altro sia contrario all’interesse del minore. In questo caso la potestà è esercitata dal genitore affidatario. Si deve ritenere che – come previsto dalla disciplina previgente alla novella del 2006 – le decisioni di maggiore interesse per i figli debbano comunque essere adottate da entrambi i coniugi e che il genitore non affidatario debba vigilare sulla istruzione ed educazione dei figli. Con la possibilità di ricorrere al giudice quando ritenga che il genitore affidatario abbia assunto decisioni pregiudizievoli all’ interesse della prole. Il giudice determina dunque i tempi e le modalità della presenza dei figli presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli. Prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori. La legge prevede che, salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando: 1) le attuali esigenze del figlio; 2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori; 3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore; 4) le risorse economiche di entrambi i genitori; 5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore. L’assegno è automaticamente adeguato agli indici ISTAT in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice. La legge stabilisce che il giudice può prevedere il pagamento di un assegno periodico ai figli maggiorenni ma non indipendenti economicamente, tale assegno deve essere versato direttamente al figlio. Ciò accade salvo diversa disposizione del giudice, il quale può dunque prevedere che l’assegno per il mantenimento del figlio maggiorenne debba essere versato al genitore con il quale il figlio convive.